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La Musica di Dio La liturgia della Messa - Ricerca Etno

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‘LA MUSICA DI DIO’
La liturgia della Messa – Ricerca etnomusicologica.

«..Sono di nuovo con me
Spiriti del vento
oltre il riparo delle mani degli dei
vanno al nord ed est e ovest
guidati dall’istinto.
Ma per volere degli dei
ancestrali
seduto su questa rupe
li osservo andare e venire
dall’alba al tramonto
con lo spirito che urge di dentro.»

Con questa ‘essai’ da una poesia di Gabriel Okara , eccoci proiettati nel cuore della Nigeria, nella cui spiritualità è rintracciabile una sorta di liturgia arcaica che il cantore esprime in presenza della divinità ancestrale, la sua appartenenza, rintracciabile nel contesto d’una realtà culturale antropologica di tipo religioso, non poi così diversa nella forma e nell’intensità, all’afflato espresso nella liturgia ufficiale della religiosità cattolico-cristiana. Se non per il suo rivolgersi a più entità distinte e tuttavia identificabili nella natura in cui esse si sono formate e hanno trovato una loro ragione di sviluppo culturale.
Proiettati nel periodo quaresimale che annualmente contrassegna il calendario liturgico della Pasqua, non possiamo non tener conto di certe ‘verità’ intrinseche alla religiosità nostrana, in cui l’entità ‘una e trina’ presuppone la salvaguardia ortodossa della nostra preghiera, di quel ‘Credo’ levato a salvaguardia di un equilibrio ‘ideale’ e ‘psicologico’ che vede il bene opposto al male, esattamente sovrapponibile alla religiosità antropologica delle popolazioni più arcaiche (non pagane), pur in mezzo a tanti contrasti e nello scontro in atto nelle diverse culture, e che ha finito per determinare nella preghiera comune una ‘verità’ conciliante di pace.
Nell’avvicinarsi della ricorrenza religiosa della Pasqua, propongo qui di seguito l’ascolto di alcune composizioni estemporanee alla liturgia ufficiale della Chiesa cattolica, ciò nondimeno raccolte nell’intento di testimoniare un ‘sentire religioso’ quanto mai vivo che accomuna i diversi popoli da un capo all’altro del mondo. Quegli stessi che trovano nella comunanza cristiana un’autentica fonte di religiosità unificatrice che li accompagna nella loro vocazione spirituale. Vocazione che, in occasione della Pasqua, assume una dimensione pressoché sentita negli altri popoli e che, a proprio modo e nella lingua d’origine, hanno voluto testimoniare con lodi e inni penitenziali nella ‘Messa’, desunti dalle loro più aderenti tradizioni popolari in fatto di musica.
Evoluta sulle direttrici conformi all’insegnamento dei ‘canoni’ costitutivi la tradizione liturgica cristiano-cattolica, la ‘Messa’ in-primis e l’orazione dei ‘Salmi’ poi, si impone all’interesse etnomusicologico per l’alto contenuto spirituale; quello stesso che ‘in illo tempore’ deve aver forgiato le singole culture gruppi di alcune popolazioni isolate che, pur conoscendo poco o niente una qualche forma di scrittura, hanno saputo mantenere un equilibrio, quasi perfetto, con la natura circostante, nelle difformi aree del bacino Mediterraneo e non solo. Nel modo qui di seguito contestualizzato, a incominciare proprio dalla tradizione etnica africana, per proseguire nella tradizione spagnola, trasferite oltreoceano nel folklore latinoamericano.
In ognuna delle quali si avverte il confluire di ‘forme’ culturali tardive, credibilmente diverse, che, in qualche modo, hanno sostenuto un processo di evangelizzazione persistente nei secoli e che, in campo musicale, ha dato vita a simbiosi di suoni e ritmi distinti, qua e là caratterizzato da influssi linguistici e dialetti gergali destinati all’uso quotidiano, quale riflesso di una struttura tribale articolata che ha permesso la conservazione e il riconoscimento di idoli arcaici, il cui ‘spirito’, ereditato dagli antenati, è ancora oggi comune a molte popolazioni sia africane che latinoamericane, benché svuotate del loro contenuto sapienziale.
Eredità che le popolazioni del continente africano delle origini, di seguito prese ad esempio, hanno articolato la propria struttura tribale-religiosa sull’uso di ‘maschere’ e ‘mascheramenti del corpo’, ancora attiva tra le etnie più interne del continente, tenuta in vita dal desiderio antropico, mai venuto meno, della ricerca di un ‘dio’ (divinità), sia esso cristiano e/o d’appartenenza ad altra confessione, in grado di garantire loro una qualche forma di sopravvivenza. La stessa che è possibile riscontrare nella forma prevalsa nella liturgia cristiana della ‘Messa’, dove il ‘fatto’ religioso non annulla, né sovrasta la ritualità della tradizione arcaica, sovraccaricandola di vigore , onde è l’Africa con i suoi strumenti, i suoi ritmi, le sue voci, i suoi battimani e le sue grida in primo piano, a regalarci un ‘evento’ rigoglioso di ancestrale brio.
* Lo testimonia questo “African Sanctus” elaborato da David Fanshawe (CD Philips 1089), in cui è riscontrabile una forte contaminazione di suoni arricchita dal timbro imitativo dei tamburi sulle percussioni rock, in aggiunta a registrazioni sul-campo di ‘cori’ africani e di ‘voci’ soliste, su brani liturgici cristiani; come appunto nel “Sanctus” elaborato su una danza Bwala tipica dell’Uganda; cui segue il “Kyrie”, ‘chiamata alla preghiera’, e il “Gloria” ripresi dalla musica per il matrimonio di tradizione islamico-egiziana. Così come per il “Credo” si è utilizzato un tema proprio del Sudan, mentre per i “Crucifixus” ripreso dal “Chant sul Qui tuum est regnum”, si è utilizzata una ‘ninna-nanna’ Masai di sicuro effetto onomatopeico. In fine l’ “Agnus Dei”, elaborato sulla musica d’accompagnamento di una ‘danza di guerra’ dei beduini del deserto del Sahara.
* Così avviene in “Missa Kongo” abbinata (sul disco Philips 1970) alla “Missa N’Kaandu”, comunemente cantate durante le funzioni religiose nella regione del Kisanto nell’attuale Zaire, in cui il sacro e il profano presenti nella liturgia africana è testimoniata dall’avvenuta interazione musicale zairota a contatto con l’espressione intimistica cristiana. le due ‘Messe’, relativamente diverse fra loro, utilizzano i toni ritmici di strumenti tipici e il necessario impeto delle danze tribali, così come nei canti si rileva una certa improvvisazione popolare disgiunta dal contesto prettamente religioso. In particolare nella “Missa Kongo” , l’uso prorompente delle percussioni tipiche delle popolazioni Bantu, fa da contrappunto alle grida spontanee delle donne Biyeki-yeki sostenute da colpi simili a spari d’arma da fuoco, che suscitano una sensazione di ‘paura’, verosimilmente derivata dal ‘fatto’ magico-trascendentale, e comunque trasgressivo, sostenuto dall’intervento di ‘seconde voci’ in alternanza alla ‘voce solista’ Diversamente nella “Missa N’Kaandu” troviamo un effetto melodico di maggiore spessore innestato su di una eccellente ritmica che esercita un richiamo alla drammaticità cerimoniale del “Prière Universelle”, in una sorta di "canto piano" davvero apprezzabile e molto gradevole all’ascolto.
Come recita una poesia di Leopold Sédar Senghor, noto poeta senegalese:

«L’uragano sradica tutto intorno a me,
e l’uragano sradica da me fogli e parole inutili.
Vortici di passione sibilano in silenzio.
Sia pace nel turbine secco, sulla fuga delle bufere!
Tu Vento ardente, Vento puro, Vento di bella stagione,
brucia ogni fiore, ogni pensiero vano.
quando ricade la sabbia sulle dune del cuore.
Donna, sospendi il tuo gesto di statua, e voi bimbi,
i vostri giuochi e le vostre risa d’avorio.
Tu, distrugga la tua voce col tuo corpo,
secchi il profumo della tua carne.
La fiamma che illumina la mia notte come una colonna,
come una palma.
Avvampa le mie labbra di sangue, Spirito,
Soffia sulle corde della mia ‘kora’.
S’alzi il mio canto, puro come l’oro di Galam.»

* Altresì la “Messa a Youndé” raccoglie documenti sonori del Camerun, detto anche ‘il riassunto dell’Africa’, per il semplice fatto che in questa regione coabitano numerosi gruppi etnici, circa 200, verosimilmente emigrati, provenienti da altre regioni del ‘continente nero’, che hanno conservato le proprie realtà tribali culturali e religiose, come l’islamismo, l’animismo e in bassa percentuale anche caratteristiche Cristiane, professate in diverse lingue, tutte ufficiali, quali l’arabo-musulmano, il francese e l’inglese, insieme a vari linguaggi autoctoni. Sul piano musicale le forme praticate sono molto vicine alla ‘monodia gregoriana’, almeno per quanto riguarda l’accostamento con la liturgia cristiana raccolta nel disco (Universo del Folklore - Arion 1975). Ciò, sebbene sul piano melodico la musica europea mal corrisponde alle rigorose esigenze toniche, per esempio, del dialetto Ewondo, o alla vitalità più ritmica tipica africana.
Diversamente accade per le influenze orientali portate senza dubbio dalle frange musulmane del Nord e di gran lunga superiori di quella cattolico-cristiana. fatto questo che già negli anni ’60, alcuni studiosi tra sociologi, folkloristi e musicologi del Camerun si sono posti il problema dell’africanizzazione della liturgia cattolica in seno al continente nero. In fine, ispirandosi ai testi biblici è stato l’operato l’Abate Pie-Claude Ngumu, già maestro di cappella della cattedrane di Notre Dame a Youndé a spuntarla sulle altre proposte, passando dalla teoria alla pratica, trascrivendo quelli che oggi sono detti i “Cantici di Ewondo”, utilizzando una delle principali lingue vernacolari del Sud del paese, dove era più influente il cattolicesimo.

In quanto fondatore della Scuola Cantori della Croce d’Ebano, Padre Ngumu ha utilizzato strumenti originari tipici della regione, come il ‘balafon’, una sorta di xilofono, per la composizione dei canti corrispettivi al canone liturgico dei così detti ‘canti d’ingresso’ e nella lettura cantata della ‘Epistola’ basandosi per entrambi sulla cadenza ritmica di una delle molte danze tradizionali. Impostando inoltre, nella conseguente lettura del ‘Vangelo’ inclusiva della relativa predica pastorale, sul suono dell’arpa ‘mvet’ tipica del Camerun, spesso mimata dal pubblico presente alla cerimonia, per facilitare la comprensione del messaggio evangelico. Lo stesso accade durante il “Credo”, in cui l’officiante apre al dialogo ‘a responsorio’ con il Coro, a cui partecipa l’intera comunità festante al suono dei tamburi e del ‘tam-tam’.
Interessante è anche la partecipazione più composta in occasione del “Kyrie” e dell’ “Offertorio” durante i quali il Coro si snoda in processione attorno allo spiazzo richiamando a raccolta i fedeli con il tipico clangore di ‘campane’ di metallo, recando offerte di prodotti della natura raccolti in ceste che portano sulla testa e che infine depongono ai piedi dell’altare per la benedizione rituale. Successivamente sono le donne che, piegate su se stesse, lanciano l’oyenga’, un urlo stridente che nell’esaltazione generale riveste significati esoterici, ma che per l’occorrenza riveste un esplicito segno della devozione popolare. Ovazione che trova il suo fulcro nei rispettivi “Alleluia” e “Canto finale” improntati sullo schema latino ma che qui acquisiscono maggiore forza evocativa, quella stessa che si ritrova nel ‘gospel’ che scaturisce in uno stato di ‘ebbrezza mistica’ che vede l’officiante unirsi cantando ai musicisti e al pubblico presente in una coreografia assai eloquente.

* Salutata come «...il più significativo inno che le generazioni africane abbiano mai elevato al Dio non soltanto e necessariamente cristiano: un prezioso documento storico da sottolineare e da prendere come esempio, che ravviva la forza mistica di cui è dotata la musica sacra.», la “Missa Luba” è indubbiamente la più rappresentativa di tutta la produzione ‘liturgica’ africana. Più volte riproposta da gruppi africani diversi, trova il suo originale nell’esecuzione dei Les Trobadours du roi Baudouin che ne furono i primi interpreti nel lontano 1958 (disco Philips BL 7592). Frutto dell’intuizione del missionario belga padre Guido Haazen, fondatore e arrangiatore del Coro formato da 45 bambini tra i 9 e i 14 anni insieme a 15 insegnati del Kamina School che accompagnò in una lunga tournée iniziata nella Sala Nervi nella Città del Vaticano e prosegita nel resto d’Europa. Trattasi di una ‘Messa latina’ basata su ‘native songs’ in puro stile congolese (ex Congo-Belga), costruita su ritmi percussivi e armonie (ninne-nanna, weddings, ecc.) rituali delle regioni Kasai e Kiluba, da cui il nome. “Missa Luba” va dunque considerata un piccolo capolavoro che ben riproduce l’alto livello di interazione raggiunta tra i diversi popoli e le diverse religioni: tradizione-etnica e cristiano-cattolica.
Musicalmente parlando si ritrova in essa il senso d’influenza reciproca, raggiunto nell’eliquilibrio perfetto che tutto sublima in ognuna ‘delle parti’ che la compongono: ‘Kyrie’, ‘Gloria’ e ‘Credo’ infatti, si svolgono secondo l’andatura inalterata dei canti ‘kasala’ della regione Ngandanjika (Kasai) da cui provengono. Mentre il ‘Sanctus’ e il ‘Gloria’ sono costruiti su ‘canti di addio e/o arrivederci’ tradizionali ‘Kiluba’. Mentre nell’ ‘Hosanna’ riprende il tempo di danza ritmica propria del Kasai, l’ ‘Agnus Dei’ si basa su un canto popolare di Luluabourg. Va inoltre sottolineato che nessuno di questi canti è stato fin’ora trascritto nelle lingue originali, pertanto la bellezza intrinseca a questa versione della “Missa Luba” sta anche nel fatto che certi ritmi, armonie e abbellimenti scaturiscono dall’improvvisazione spontanea dei suoi esecutori di fronte ad una proliferazione simbolico-spirituale che investe ogni elemento della “Messa” cosiddetta attraverso una complessa strategia della tensione: scenografia, colore, musica, recitazione, in cui tutto è sovraccarico di senso.

Se quelli qui appena toccati possono essere considerati incredibili esempi di religiosità attiva nel mondo; sottolineare quanta strada si è fatta nel campo della trasmissione e della conoscenza, ciò non di meno possiamo sentirci forti di un sentimento di maggiore adesione al ‘fatto’ religioso e di viverlo intensamente. Ed è forse proprio grazie alla spinta della ricerca etnologica che possiamo intraprendere la strada della concertazione e di uno stesso ‘modus vivendi’ con le altre culture, attuando quel recupero distinto delle tradizioni popolari che pure malgrado i contrasti inevitabili, non hanno mai smesso di far sentire il loro altissimo ‘grido’, levato in difesa di una unica identità da salvare, la nostra e quella di tutti quei popoli che giustamente riscattano nella parola di Dio la propria esistenza. È così, come abbiamo avuto modo di leggere, che la liturgia cristiana, nell’aprirsi queste diverse espressioni non subisce variazioni di sorta, ma ne esce indubbiamente vivificata, proiettata in un ‘Credo’ che nella comunanza traslitterale della musica, ritrova il proprio tempo edenico.

Recita una poesia di E:E:G.Armattoe, poeta del Ghana.

«Il nostro Dio è nero.
Nero di eterna bellezza,
con grandi labbra voluttuose,
capelli arruffati e scuri occhi liquidi.
Forma d’armonioso aspetto Egli è,
poiché a Sua immagine siamo fatti,
il nostro Dio è nero.»

Note: Le poesie qui trascritte sono riprese da “Nuova Poesia Negra” – Guanda 1961.



(continua)










prevede l’offerta dei doni della natura durante la Messa, così come prevede anche la suddivisione dei prodotti della natura, trasformati in cibo, ai più bisognosi affinché possano godere della ‘gloria’ di Cristo con lo spirito colmo di quella gioia che nutre la fame. Questo per dire che alla ‘fame’ va corrisposta un’adeguata dose di sostentamento rigenerante per il corpo e per lo spirito. Allora ben venga la Pasqua che dopo i necessari ‘pianti rituali’ di espiazione, si presta a proponimenti di gioia per la festa di ‘Resurrezione’ e di ritorno alla vita. Questo in vero il senso della spiritualità religiosa proprio dello spirito comunitario della Pasqua affermatasi in Spagna agli albori del Medievo e che verrà ripresa solo al tempo dei Re cattolici avvenuta durante il XV secolo, allorquando Santa Romana Chiesa esercitò il suo pieno potere con l’instaurazione del Tribunale Ecclesiastico, più conosciuto come la Santa Inquisizione. Prima quindi che la religiosità popolare si trasformasse nelle tribolazioni edificanti delle Sacre Rappresentazioni a scopo esclusivamente penitenziale e nelle truculente Processioni per Settimana Santa, ed incendiasse i ‘roghi’ contro la stregoneria, i giudei-sefarditi, gli zingari, i diversi e quant’altri che abbiamo appreso ad elencare dalle insanguinate pagine della storia.

Pagine dalle quali abbiamo anche appreso che una tale ferrea disciplina, per quanto dovesse essere accettata forzatamente da tutti, ciò che avvenne nel lungo termine non senza trovare sul suo cammino molti ostacoli di carattere aconfessionale e quindi laico, riscontrò un certo disaccordo con l’allora potere regnante, di quelle frange dei vecchi cristiani che andavano soto il nome di Mozarabi, grazie ai quali già attorno all’Anno Mille dopo l’abolizione del rito da parte di Papa Gregorio VII nell’ XI secolo, avevano conservato la propria lingua ‘mozarabica’, (un continuum dialettale romanzo parlata nella penisola iberica da parte dei Cristiani nell'XI secolo e nel XII secolo), all’interno della loro secolare liturgia in comunione con lòa chiesa cattolica. In verità non poco si deve a quei a quei padri missionari che, giunti nei primi secoli della cristianizzazione della Spagna, incoraggiarono le popolazioni autoctone, compresi i nomadi zingari e zingaro-gitanos, a misurarsi con i canti cristiano-mozarabici durante le nuove funzioni liturgiche imposte loro.

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